mercoledì, dicembre 28, 2005

Caramelle da uno sconosciuto

Quell'anno le gigomme e le figurine adesive facevano paura. I nostri genitori ci mettevano in guardia. Dei loschi figuri spietati e senza scrupoli erano ad ogni angolo della strada, infestavano i parchi e se ne stavano in agguato all'uscita della scuola elementare. "Non accettate niente dagli sconosciuti" dicevano i grandi. Stefano venne un giorno a scuola e ci disse che aveva sentito dire dai suoi genitori che nelle figurine c'era la droga. Ma non solo nelle figurine, anche nelle gigomme e nelle caramelle, figurarsi poi nei trasferelli e nei tatuaggi che uscivano dalle patatine, in quest'ultimo caso la droga ti entrava addirittura dentro la pelle. Andavamo alla scuola elementare di Penne con il nostro zainetto Invicta Jolly, ereditato dal cugino più grande, scrutando la strada con curiosità e terrore. Non accettavamo più dal droghiere, come resto del panino, le gigomme di Asterix al posto degli spiccioli, con quel nome lui era il primo sospettato. Si diceva che bastasse anche solo toccare gli adesivi e le chewingum per rimanere drogati e da quel momento si iniziavano a vedere cose strane: i tuoi amici si trasformavano in mostri disumani ma soprattutto si sarebbe materializzato un enorme drago che ti avrebbe tormentato per tutta la vita.
In quel giorno d'inizio autunno, all'uscita della scuola, vidi Dante parlottare con un vecchio dalla faccia di cane. L'uomo indossava un impermeabile nero ed aveva un cappello da gangster, consegnò qualcosa nelle mani di Dante e se ne andò via verso il mercato rionale. Raggiunsi il mio amico e vidi che aveva in mano un intero pacchetto di gomme a forma di sigaretta, quelle del tipo durissimo che perdevano il sapore di Fragola dopo trenta secondi.
"Butta via quelle cicche, ci può stare la droga!" gli dissi
"Ma che stai a dì mongolò, se me le ha date mio nonno. Anzi, ne vuoi una?"
"No no, mi fa pure schifo ssò tipo di gigomme"
Dante sfilò dal pacchetto una gigomma, tolse la cartina che la avvolgeva e se la infilò in bocca. Al primo morso che le diede la gomma si frantumò dividendosi in tante piccole particelle insapori. Prendemmo la strada di casa passando attraverso il mercato del sabato. Dante si bloccò come paralizzato, immobile mentre fissava un'apetta celeste. Il contadino stava caricando le ultime cassette di verdura quando il suo orecchio fù infestato dall'urlo del mio amico che ora colava bava dalla bocca e aveva il collo teso ed i denti stretti come se stesse congelando. Io ero più terrorizzato di lui ma cercai di scuoterlo, mi bloccò la mano portandomi lo sguardo verso il contadino, l'uomo stava mutando.
"Ottije Zopì, chi t'ha pijate?!?!?" gridò la moglie allarmata.
La fisionomia dell'uomo si deformò velocemente, come se sotto la pelle bollisse. La massa corporea crebbe a dismisura ed esplose nei suoi vestiti. Sembrava uno dei mostri che custodivo nella mia cameretta, confinati nel castello di Greyskull alle dipendenze di Skeletor. La sua mano ormai divenuta un artiglio affondò nella pancia della moglie trapassandole la parnanza verde sporca di pomodoro e facendole cadere il fazzuolo nel quale avvolgeva i capelli.
Io e Dante iniziammo a correre nella direzione opposta, come ci avevavo insegnato al campo sportivo durante gli allenamenti per i Giochi della Gioventù. Una fitta mi paralizzò la gamba facendomi trascinare la punta delle All-star dei Lakers sull'asfalto. Mi sentivo fuori dal mondo, provando una sensazione che ritrovai solo anni più tardi bevendo troppo limoncello alla gita del terzo superiore. Enormi unghie sfondarono l'estremità in gomma delle scarpe, le gambe si ingrossarono strappando le cuciture dei jeans Americanino mentre la scritta "è qui la festa" che avevo sulla maglia si imbrattava di pus. Non avevo mai visto un drago in vita mia, fino a quando non vidi la mia immagine riflessa sul parabrezza di una Fiat Regata. Ero enorme, orribile. La gola fondeva dal calore, aprii le fauci sputando fuoco. Mi dimenavo disperato ed appena la mia bocca si apriva uscivano fiamme. Cercai di afferrare Dante con i miei artigli ma lui scappò. Allora iniziai a corregli dietro schiacciando frutta e verdura al mio passaggio. Tentai di afferrarlo un'ultima volta ma la mia mano fu colpita. Era stato il nostro maestro, molto abile nell'utilizzare una piccola antenna da radio per gli usi più disparati. Con quell'antenna ci indicava le regioni d'Italia sulla cartina geografica, richiamava la nostra attenzione sbattendola sulla cattedra e ci picchiava quando eravamo indisciplinati, prima di metterci la nota sul registro. Anche quella volta lo fece, fu la prima nota della mia carriera di studente.

sabato, dicembre 24, 2005

Rissa

Nei week-end la gente si trita come il sale
per insaporire
scialbe settimane
certe zambate che manco li cani
certi morsi che neanche gli umani.

venerdì, dicembre 23, 2005

On Air

Gran bel disco di songwriting americano. Eccellenti melodie acustiche e vitali che rimangono in testa al primo ascolto. Come se non bastasse il signor Jack Johnson è anche un bravo surfista. In effetti te lo immagini suonare le sue canzoni davanti ad un falò, con la chitarra acustica, il cappuccio della felpa in testa ed il sole che si va spegnendo. Jack Johnson - in between the dreams

mercoledì, dicembre 21, 2005

Piccola soddisfazione tardo-adolescenziale

Oggi pomeriggio alla trasmissione Patchanka, trasmessa da popolare network (da queste parti su RadioCittà), è stata letta in diretta nazionale la mia mail per il sondaggio sui film dell'anno.
In breve:
-Sin City: Direi che si tratta di un esperimento interessante. Anche se non dovesse piacere si ha comunque la sensazione di aver visto qualcosa di nuovo.
-Old Boy: Capolavoro disturbante.
Mi ha un pò deluso La Terra dei Morti Viventi. Vabè.
Horror dell'anno: The Descent.
Infine una citazione d'incoraggiamento per il nostro cinema con "Romanzo Criminale", è stato un apprezzabile tentativo non del tutto riuscito, anche se quel cast da copertina di Cosmopolitan faceva un pò ridere. Ci rivorrebbe Fernando Di Leo.

lunedì, dicembre 19, 2005

A history of violence

L'ultimo film di Cronenberg è stata l'occasione per sperimentare la nuova multisala di Villa Raspa (in via Federico Fellini, sic!). Il gelo da neve che fino a quel momento ci aveva riempito le narici lascia spazio al tanfo dolciastro dei pop-corn. L'ambiente è sterile e desertico e gli avventori alla cassa sono pochi. Entriamo e la sala è vuota, poi Antonio Banderas ci augura buone feste, la nostra emozione però si placa quando scopriamo che in realtà la voce è quella del suo doppiatore italiano Luca Ward (e io che ci avevo sperato). I momenti che precedono i film al cinema sono gli unici nei quali presto attenzione agli spot pubblicitari, una forma di coercizione alla quale non ci si pò sottrarre, mi chiedo però perchè abbiano eliminato del tutto i trailer dei film di prossima uscita a favore della pubblicità delle automobili, misteri del marketing. Sui titoli di testa la sala si va popolando, il piano-sequenza iniziale è accompagnato da un tappeto sonoro di bottiglie che si stappano, pacchetti di patatine aperti e da mani che frugano nel maxi cestone di pop-corn. I rumori accompagnano tutto il film e gli si addicono poco. I due ragazzi dietro di me sono voraci e li sento divorare i loro cibacci grassi, nelle scene di massima tensione posso distinguere chiaramente il suono del pop-corn molle e masticato che viene lavorato e biascicato dalla lingua. I due tipi ruminano come vecchi con la dentiera e sghignazzano. Nel film la tensione cresce e i rumori si fanno più rarefatti, i viveri sono terminati. INTERVALLO. L'intervallo non c'entra un' emerita sega in un film che dura appena 90 minuti, che utilità avrà spezzare la visione con musiche natalizie? Mi viene però in mente quello che ho letto la mattina in un articolo di cronaca locale: il maggior guadagno delle multisale è proprio nella vendita dei popcorn, in percentuale molto più alto rispetto a quello che si ottiene sul prezzo del biglietto. Dice bene il mio amico Gianni: "il film è proiettato solo per fare da traino ai popcorn". Il film riprende e ha subito un ritmo diverso. Anche le mandibole dietro di me masticano più velocemente. Cazzo, i due hanno approfittato dell'intervallo per rifornirsi. La mano rimesta con foga nel cestello di carta, eccitata dalla visione del sangue nella pellicola. Non credo di poter resistere ancora per molto. Sento nel mio orecchio la sua lingua salata che schiaffeggia il palato. Il cestino è sempre più vuoto e la sua mano ci balla dentro come una palla in un flipper di burro alla ricerca delle ultime molliche di mais. Sembra che lo faccia di proposito, vuole alterare i miei nervi. La mia mano lascia quella di Lei e scivola sul jeans. Le dita sollevano lentamente la piega del pantalone e si infilano nel calzino stretto tra gli anfibi. Sfioro con i polpastrelli la piccola cintura in cuoio che fa da sostegno alla fondina. Sollevo il bottone che funge da sicura e sfilo via il manico con le dita. Stringo il coltello tra le mani e sono pronto a sfuriare il fendente sulla sua gola. Fingo di mettermi comodo ottenendo un'agevole via attraverso cui far scorrere la lama. Cronch..cronch... ribatte lui con le labbra arrossate dal sale. Lo voglio colpire sotto la gola e poi aprire uno squarcio che faccia colare il suo sangue nel cestello insaporendo i popcorn. Gli concedo di gustare l'ultimo pugno del suo amato snack. Lui ciancica qualcosa nell'orecchio dell'amico sputandogli pezzettini masticati sul lobo. Sono pronto a colpire. Sullo schermo Viggo Mortensen ha uno scatto energico e fa un massacro, è il momento giusto. Sistemo il braccio per non sbagliare ma il tipo esclama verso Mortensen: "Ma chi cazz' ha divindat', Charles Bronson!". Lo guardo negli occhi e scoppio a ridere. Il film a prima vista ha pochi elementi del cinema di Cronenberg. Nessun tumore putrescente, niente bioporte. Non è più il corpo a mutare ma l'identità. La storia è "genere" allo stato puro nell'accezione più fumettistica del termine. Credo che messi dentro la sala senza alcuna notizia in pochi avrebbero attribuito il film a Cronenberg, anche se alcune atmosfere spoglie e scarnificate fanno venire in mente "Spider". Il procedere della trama è molto lineare e preciso, verrebbè quasi da parlare di un film classico, talmente classico da far pensare ad un western. Ci sono molti dei luoghi comuni del cinema americano, dalle scorribande dei bulletti nelle scuole allo sceriffo grassoccio e remissivo. L'occhio però è malato e disturbante, il sangue scorre sul serio e i colpi di pistola si fanno sentire, le scene di sesso lontane mille miglia dalla patina glamouristica di Hollywood. Chi si aspetta di vedere un film alla David Cronenberg probabilmente rimarra un tantino deluso, a meno che non decida (come si dovrebbe fare in ogni caso) di abbandonare l'ottica dell'esperto e lasciarsi trasportare dal racconto, un buon racconto noir, con una grande atmosfera e girato da un grande regista. Il corpo ha sempre tempo per marcire.

giovedì, dicembre 15, 2005

Il gentiluomo con la pistola


Giovedì 4 dicembre 2003. Ero in biblioteca. Il manifesto, pagina 15. Un articolo di Marco Giusti a tutta pagina intitolato "L'anarchico del noir" annuncia la scomparsa del regista Fernando Di Leo. La notizia mi colpì più di quanto mi sarei mai aspettato, era come se se ne fosse andata una persona vicina. Niente a che fare con quelle passioni da nerd che se ne vanno in giro indossando le maschere di Guerre Stellari. Si tratta piuttosto di un legame viscerale, fatto di carni e asfalto, di parole ascoltate e lette nelle sue interviste, di quella sua capacità di parlare del cinema e della vita. L'opera di Di Leo rimane un'esperienza unica nel cinema italiano. Un percorso intenso e lacerante dove anche le prove meno riuscite e realizzate per esigenze puramente alimentari mantengono sempre una buona dose di originalità. La visione della società italiana di Fernando ha un ottica decisamente particolare, non a caso è stato il primo a comprendere la forza e le potenzialità dell'opera di Giorgio Scerbanenco utilizzando il romanzo "I ragazzi del massacro" come soggetto per il suo primo noir(1969). Ed è proprio il ciclo dei noir a rappresentare la vetta della sua produzione cinematografica, in particolar modo con la cosidetta trilogia del milieu: "Milano Calibro 9", "La mala ordina" ed "Il Boss". Tre film molto diversi tra loro che, tuttavia, costituiscono un percorso uniforme in cui l'occhio del regista sempre più si distacca dai personaggi raggiungendo l'apice del nichilismo proprio con l'ultimo film del terzetto. Non c'è spazio per la lotta tra buoni e cattivi, perchè tutti hanno qualcosa di marcio da nascondere e difendere, basta pensare al Commissario Malacarne, lo sbirro corrotto interpretato da Luc Merenda ne "il poliziotto è marcio", che costò a Di Leo minacce da parte del sindacato della polizia. Lo stesso modo di in cui affronta la politica è trattato in maniera assolutamente diversa rispetto a quanto avveniva nei pur interessanti lavori di quei registi appartenenti al cosidetto cinema politico. Ci sono poi le sterzate improvvise che Di Leo cerca di imprimere al suo lavoro aggiungendo al nero toni di colore e virando verso il grottesco, come avviene in "Colpo in Canna" o "I Padroni della Città". Altro elemento da tenere in conto è la capacità tecnica del regista, notevolmente superiore rispetto agli artigiani che praticavano i generi in quegli anni. Nelle opere migliori il pathos della tragedia è rafforzato dalle musiche di Bacalov e dalle performance di attori che realizzano spesso l'interpretazione della propria vita (Capponi, Adorf e Moschin). Fernando scardina le regole del genere attribuendo ruoli di rilievo alle donne, cosa fino ad allora impensabile in un noir, e sono soprattutto le tematiche femminili quelle che a Di Leo stanno più a cuore, manifestandosi esplicitamente nelle sue opere più tendenti all'erotismo come "Brucia Ragazzo Brucia", "La Seduzione" ed in quell'esperimento interessante ma non propriamente riuscito che è stato "Avere vent'anni". Ogni singolo dialogo dei suoi film è curato con particolare attenzione, rivelandosi in molti casi il vero valore aggiunto della pellicola. Di Leo era un vero pensatore, un intellettuale al servizio del genere, nei confronti del quale il cinema italiano ha molti debiti che con il tempo stà saldando, a partire dalla retrospettiva veneziana a lui dedicata lo scorso anno, fino all'uscita di prestigiose e ricche edizioni dei suoi film in dvd. Un uomo che ha iniziato a seminare nel cinema fin dai primi western di Leone, dietro ai quali c'è la sua sceneggiatura, per arrivare ai ripetuti omaggi a lui tributati da Quentin Tarantino nei suoi film. Non ho la pretesa, nè la forza, nè le capacità per condensare tutto in un unico post, ma ci tornerò sù.

mercoledì, dicembre 14, 2005

Gore-tax

Ho appena appreso questa notizia balorda dal forum di Nocturno:

Politica
13 dic 12:05
Finanziaria: in arrivo una tassa per i film violenti
ROMA - Un tassa per i film violenti. Verra' introdotta dalla Finaziaria 2006. La decisione e' stata presa dopo la riunione di questa notte per decidere gli ultimi ritocchi al maxi emendamento del Governo. (Agr)
http://www.corriere.it/ultima_ora/agrnews.jsp?id={F463B4A1-1856-431A-8C2C-010C1EA9F6AA}

Come se non bastasse nei giorni scorsi sono stati nominati i nuovi membri della commissione censura: Clarissa Burt, Francesco Pionati (stucchevole cronista di politica del tg1) ed una ex-segretaria del presidente del consiglio. Amen.
Creperemo di Muccino e affogheremo in Pieraccioni.
Mi chiedo in base a quali criteri sarà giudicata la violenza dei film. Sarebbe come tassare i musicisti che usano le chitarre distorte.

domenica, dicembre 11, 2005

Richard Pryor (1940-2005)

Credo di aver visto almeno trenta volte
"non dirmelo, non ci sento"
in coppia con Gene Wilder.

sabato, dicembre 10, 2005

Gianni Maroccolo & Ivana Gatti


Il lungomare di Silvi Marina d'inverno mette una tristezza infinita. Una distesa di palazzi e cemento che preclude la vista del mare, scempio di boutique che vendono canotti e di gelaterie agghiaccianti. Mi chiedo se nei decenni passati in località della costa adriatica come Francavilla, Montesilvano e Silvi vi sia stato un assessorato al cattivo gusto, magari tutto è dipeso dalla necessità di adeguarsi al vestiario dei turisti tedeschi. Tutto questo per dire che la tappa abruzzese del tour di Ivana Gatti si è tenuta in un gelido palatenda piazzato sul lungomare silvarolo, con tanto di pioggia che filtrava dal soffitto. Il luogo non era molto affollatto o forse era eccessivamente dispersivo per un concerto del genere, a riscaldare l'ambiente ci ha pensato l'elettronica affascinante che accompagnava la voce di Ivana Gatti. Di lei non so molto: si tratta di una giovane cantautrice che Gianni Maroccolo si è preso la briga di produrre, lanciare ed accompagnare. Il resto della band era composto dal redivivo Antonio Aiazzi (si proprio lui, il primo tastierista dei Litfiba), Luca Bergia dei Marlene Kuntz alla batteria elettronica e non, Daniela Savoldi dei Caravane de Ville al violoncello e Cristiano Della Monica (PGR) alle percussioni ai cori ed alle macchine. Il concerto è risultato molto gradevole e a tratti struggente, soprattutto per le doti vocali della Gatti che non nasconde una profonda ammirazione (ed ispirazione) nei confronti di Giuni Russo, dedicandole anche un pezzo. L'obiettivo delle musiche è quello di avvolgere la voce e gli spettatori creando un'atmosfera sublime, a spiccare è naturalmente il basso di Maroccolo che si concede anche qualche riff distorto, sempre però cercando di non catalizzare l'attenzione su di sè. Il pubblico si e lasciato conquistare a poco a poco e credo che in molti siano rimasti entusiasti dello spettacolo. Gli stessi musicisti sono stati sorpesi dall'accoglienza e dalla richiesta del bis, nel quale è stata eseguita una canzone che cita espressamente alcuni versi di ma il cielo è sempre più blù. Ottima serata.

http://www.giannimaroccolo.com/ig/

venerdì, dicembre 09, 2005

On Air

Sono riuscito a placare la mia assuefazione all'ultimo disco dei Baustelle grazie alla scoperta di questo interessante chansonnier.

Benjamin Biolay - A l'origine

venerdì, dicembre 02, 2005

San Marino Kill! Kill!

Partecipare alle attività parrocchiali è stata la mia salvezza, lo dice sempre mamma: niente droga, niente cattive compagnie e soprattutto tante gite. Anche il dottore lo ha detto, è quasi meglio del nuoto, sicuramente supera di gran lunga la pianola.
Fin da piccolo sono abituato a viaggiare. La prima sbiadita immagine che mi gravita nella testa è quella del viaggio da Caracas a Roma. I miei primi genitori però non li ricordo ne li rimpiango, ora sto bene qui.
La gita nella Repubblica di San Marino si è impressa a fuoco nella mente, come un disegno intagliato sulla corteccia di un albero. Due anni fa circa, una giornata piovosa, tanti pullman, tante tedesche. Mi ritrovo in una gabbia dove far ciondolare disordinatamente turisti per spremerli fino all’ultimo euro. Il potenziale fascino del luogo è inghiottito da botteghe ricolme di cianfrusaglie in sovrannumero rispetto alla superficie calpestabile. Quel giorno scoprii con stupore che il commercio dei coltellini svizzeri vanta numeri impressionanti, anche tra i parrocchiani si nascondevano insospettabili fanatici dell’arma bianca dalle mille funzionalità, una vera e propria guerra santa a colpi di tagliaunghie.
La prima folgorazione di quel viaggio la ebbi alle porte del centro storico entrando nel museo della tortura. Una valanga di utensili del dolore e la guida che ci illustrava come venissero usati sui prigionieri. Mi ribolliva il sangue mentre la hostess infilava la testa nella ghigliottina incalzata dalle domande di Don Romeo, il missionario al contrario che di solito ci faceva da accompagnatore.
Proseguimmo divincolandoci tra stradine in salita tempestate da negozi in fotocopia che vendevano oro e liquori, un binomio che, in quel momento, sembrava aver sostituito nei gusti dei miei compagni di viaggio il più popolare “donne & motori”. La conseguenza di questo improvviso cambio di preferenze portò gioie luccicanti al collo delle donne e malori per i mariti che, per dimenticare gli acquisti incauti (ma convenienti), avevano scolato tutte le bottiglie di grappa da portare in souvenir ai parenti.
La mia eccitazione si stava per quietare quando arrivammo al museo delle armi antiche, una rassegna dei più eleganti strumenti di morte della storia. Neanche il tempo di respirare che si giunge al museo delle armi moderne. Finalmente compresi l’utilità di quelle piccole botteghe ai lati della strada. L’istinto medioevale di distruzione e morte trasmessomi dall’educativa visita ai musei mi portò a fare una fila di quindici minuti per poter acquistare il mio primo fucile, un M-16 ad aria compressa, un’arma d’assalto perfettamente riprodotta e senza Iva.
Dal giorno del nostro ritorno a casa dichiarai guerra a tutti gli abitanti del mio borgo. Scatenai l’invidia e il senso di rivalsa nei miei amici, che si procurarono in fretta interi arsenali di armi ad aria compressa per difendersi.
Giocavamo alla guerra, le nostre battaglie erano fissate per la domenica. La preparazione occupava l’intera settimana. La nostra euforia prese il posto delle gite parrocchiali anche nel cuore di Don Romeo che, di settimana in settimana, proporzionava la durata della santa messa delle dieci con l’orario fissato per l’appuntamento.
Col tempo gli investimenti si fecero sempre più consistenti: le mimetiche, la costituzione del softair club, i boschi di notte, i casali abbandonati, la tessera del poligono.
Persi anche un occhio, centrato in pieno, nulla da fare.
L’idea di spostare le nostre battaglie nella metropoli venne da sé, dopo che nei mesi precedenti avevamo battuto fabbriche dismesse, ruderi e cave in tutta la provincia. Il pullman ci porta nella capitale, un campo da guerra perfetto, noi vestiti di tutto punto che ci divertiamo a seminare il terrore tra i turisti... tutto il resto è avvenuto molto velocemente…

Un’esplosione, la terra trema, elicotteri, ronzio di trasmittenti, sirene, il traffico impazzisce, una donna calpestata dalla folla, polvere, un uomo con la faccia coperta di sangue ed i vestiti strappati urla, i baffi gli si imbevono di lacrime e sudore, il colosseo è esploso, Cristo! Penso alle ossa di Chuck Norris che si spezzano sotto i colpi di Chen e sto male. Scappo via col mio giocattolo a tracolla, è il tracollo.

Roma.
Ora.
Sono circondato: caschi, kevlar, armi lucenti e bellissime. Non capisco subito, poi vedo il cadavere di Don Romeo a terra con il fucile tra le braccia. Brutta fine per un uomo fattosi prete solo per scappare via dalla Somalia devastata dalla guerra ed ora riverso a terra, in pieno centro di Roma, vestito da guerrigliero e col cranio spappolato. Non c’è tempo di pensare. Non sono accettate spiegazioni. Venti fucili rivolti verso di me, che belli che sono. Ho solo il tempo di ascoltare: dalla pensilina del bus una radio abbandonata trasmette il notiziario “…l’allerta è massima, dalle ultime notizie sembra che i terroristi islamici esecutori dell’attentato siano accerchiati nel centro della città, l’ordine è di sparare a vista…”. La voce del cronista abbraccia l’esplosione del colpo mentre il proiettile si schianta sul mio occhio di vetro mandandolo in mille pezzi. Poi è cervello. Precipito verso il marciapiede. Prima che quel che resta della mia testa s’infranga sull’asfalto penso alla hostess del museo della tortura chiusa dentro la vergine di Norimberga. Muoio…ma con un dubbio: come si può scambiare un venezuelano per un arabo?
Amen.