lunedì, marzo 31, 2008

security

Esistono vari gradi di indifferenza. In un’ipotetica scala di valori, a metà del percorso, si colloca l’indifferenza-coreografica, conosciuta anche con il nome di “abitudine all’assurdo”.Finisce così che le persone acquisiscono l’inconscia capacità di plasmarsi e modellarsi attorno a eventi che in condizioni normali sembrerebbero folli o privi di logica, e invece, per il loro continuo reiterarsi, entrano a far parte della routine.Passeggio stordito dal sonno per le vie del risicato centro storico di Pescara nell’ora del massimo afflusso. Di colpo il chiacchiericcio viene smorzato da insulti e gesti di sfida. Lo svogliato pubblico del venerdì sera si volta cosciente di quello che sta per succedere.Ci sono tre ragazzetti che solo se sovrapposti come un totem riuscirebbero a guardare negli occhi il buttafuori che stanno minacciando. La folla non si scompone, sa già come muoversi. Tutti ordinatamente si dispongono ad anfiteatro sperando che il cocktail duri fino alla fine della rissa. Io mi defilo facendomi scudo con un abbronzato agente di commercio, ma vedo coloro che occupano le prime file del ring di carne e cannucce non mostrare alcun timore.La lotta pare abbastanza impari, è un cinque contro uno, anche se sono tutti mezze seghe. Da quello che posso vedere i cinque hanno una tattica molto rodata. Appena il buttafuori si allontana dall’ingresso del locale parte il piccoletto disposto al centro con due ganci alla mascella, sa che ne prenderà altrettanti ma non gliene frega niente. Subito dopo dalle fasce partono gli altri tre con degli aborti di calci volanti. Il bestione si difende bene ma non è sufficiente. Arriva il turno del quinto che si sgancia dalle retrovie per scagliare come una molotov il verde vetro della Heineken in direzione dell’avversario. La bottiglia si schianta sul plexiglas antisfondamento che si è appena chiuso alle spalle del buttafuori. Provano ad abbatterlo con un paio di calci ma desistono subito. Lasciano echeggiare un’ultima frase nell’aria -Non devi fare il negro a Pescara!- poi se ne vanno, passo svelto ma neanche troppo.La scena non dura più di un minuto e mezzo.Alla fine tutti, contemporaneamente, tornano nella posizione che occupavano novanta secondi prima, cercando di riprendere le fila del discorso. Sono pochi i commenti sull’accaduto – Ah, sci, sono sempre gli stessi – ed ancora il gestore del locale di fronte che parla con il socio – Vedi che i vetri antisfondamento funzionano, li dobbiamo mettere anche noi -, ci sono anche i ritardatari che vengono rassicurati dagli amici – Tanto adesso tornano. Vedi, stanno laggiù ad aspettare che se ne vanno gli sbirri-.La folla si muove ordinatamente chiudendo lo spazio e cicatrizzando il teatro dell’evento insieme ai cocci di bottiglia.In alto c’è l’occhio delle videocamere di sorveglianza che hanno firmato la piccola danza. I sinuosi movimenti ripresi in un bianco e nero sterile e di scarsa qualità. Gli attori e le efficaci comparse tornano a fluire nelle vene della movida pescarese. Ognuno calato nel personaggio che gli è stato affidato.Da un balcone fatiscente quello che sembra un regista urla al megafono – Ragazzi! Mantenete l’espressione più che potete, le telecamere sono sempre accese -.

giovedì, marzo 27, 2008

Zip

Solo chiuso in cella per l’ultima sera
Domani finalmente esco di galera
Sono tra le sbarre per un errore culinario
Con una piccola abatjour per finire il solitario

Spacciavo gli spinelli nel quartiere Rancitelli
La pattuglia che mi punta mentre smercio la corteccia
Fuori per buona condotta ma una pessima forchetta
Ingoio il sacchetto che porto negli slip
Mentre ragazzini fuggono in sella ai loro Zip

Il woofer della Punto grida di dolore
E’ Gianni che insulta il suo perduto amore
Penso solo al pelo che ho ficcato in gola
Ma non bado alla trave in strada e la mia auto vola

L’arresto, le manette e l’impianto audio scassato
Ascolto radio pantera mentre vado a San Donato

Domani rivedrò la mia città vicina
Ci sarà una fontana in più
Ma avrò sempre la mia panchina.

martedì, marzo 18, 2008

Porte Aperte

Solo ora capisco come deve sentirsi il guardiano di un faro.
Sono solo le otto di sera e sembra notte fonda dentro questa villetta, in questa strada senza uscita.
Alle spalle ho un finestrone che si affaccia sul parcheggio. Il vento spazza via le speranze di primavera anticipata.
Conto i soldi, tanti soldi. Non c’è internet, ho una vecchia radio che gracchia ed un Pc che reclama aggiornamenti.
Anche stasera sono l’ultimo ad andar via. Ho il codice dell’allarme, le chiavi di porte e cancelli ed una rabbia che mi divora il fegato.
Mi volto con gli occhi pesanti ad osservare i cactus assolutamente fuori luogo in questo scorcio di campagna che cercano di resistere al vento. Lo stereo è sintonizzato da una vita su una piccola stazione regionale che piace tanto al mio collega perché gli ricorda i suoi tempi, come se tutto quello che è stato prodotto dai suoi trent’anni in poi non gli appartenesse. Non ho mai avuto la forza di cambiare frequenza, ogni volta che provo ad avvicinarmi alla manopola arriva una vecchia hit di Celentano che mi fa cambiare idea.
Fuori inizia anche a piovere. Una pioggia gradevole come merda di cane.
Sono pronto per uscire, la procedura è sempre la stessa: finestre, luci, cassaforte, allarme.
Infilo anche la giacca. Il codice…il codice…cazzo…me lo scordo sempre.
Due fari irrompono nel viale riflettendosi nelle gocce di pioggia. Sembrerebbe una Ibiza bianca. Non è una vettura familare da queste parti. Cerco di vedere i volti all’interno dell’abitacolo ma sono senza occhiali e senza lenti, la solita sbadataggine da miope vanitoso.
La macchina fa manovra nel vialetto puntando i fari verso l’ingresso principale. Li vedo scendere con delle torce.
Portano lunghi spolverini scuri e la pioggia scivola sui loro cappelli.
Uff…una rapina all’ora di chiusura. Non ho niente da difendere in questo posto e solo voglia di andare a casa.
Giro la chiave del quadro comandi della porta scorrevole spalancando la porta. Prendo la borsa e vado via.
Se ci fosse stato un comando per l’autodistruzione l’avrei premuto. Giuro.