San Marino Kill! Kill!
Partecipare alle attività parrocchiali è stata la mia salvezza, lo dice sempre mamma: niente droga, niente cattive compagnie e soprattutto tante gite. Anche il dottore lo ha detto, è quasi meglio del nuoto, sicuramente supera di gran lunga la pianola.
Fin da piccolo sono abituato a viaggiare. La prima sbiadita immagine che mi gravita nella testa è quella del viaggio da Caracas a Roma. I miei primi genitori però non li ricordo ne li rimpiango, ora sto bene qui.
La gita nella Repubblica di San Marino si è impressa a fuoco nella mente, come un disegno intagliato sulla corteccia di un albero. Due anni fa circa, una giornata piovosa, tanti pullman, tante tedesche. Mi ritrovo in una gabbia dove far ciondolare disordinatamente turisti per spremerli fino all’ultimo euro. Il potenziale fascino del luogo è inghiottito da botteghe ricolme di cianfrusaglie in sovrannumero rispetto alla superficie calpestabile. Quel giorno scoprii con stupore che il commercio dei coltellini svizzeri vanta numeri impressionanti, anche tra i parrocchiani si nascondevano insospettabili fanatici dell’arma bianca dalle mille funzionalità, una vera e propria guerra santa a colpi di tagliaunghie.
La prima folgorazione di quel viaggio la ebbi alle porte del centro storico entrando nel museo della tortura. Una valanga di utensili del dolore e la guida che ci illustrava come venissero usati sui prigionieri. Mi ribolliva il sangue mentre la hostess infilava la testa nella ghigliottina incalzata dalle domande di Don Romeo, il missionario al contrario che di solito ci faceva da accompagnatore.
Proseguimmo divincolandoci tra stradine in salita tempestate da negozi in fotocopia che vendevano oro e liquori, un binomio che, in quel momento, sembrava aver sostituito nei gusti dei miei compagni di viaggio il più popolare “donne & motori”. La conseguenza di questo improvviso cambio di preferenze portò gioie luccicanti al collo delle donne e malori per i mariti che, per dimenticare gli acquisti incauti (ma convenienti), avevano scolato tutte le bottiglie di grappa da portare in souvenir ai parenti.
La mia eccitazione si stava per quietare quando arrivammo al museo delle armi antiche, una rassegna dei più eleganti strumenti di morte della storia. Neanche il tempo di respirare che si giunge al museo delle armi moderne. Finalmente compresi l’utilità di quelle piccole botteghe ai lati della strada. L’istinto medioevale di distruzione e morte trasmessomi dall’educativa visita ai musei mi portò a fare una fila di quindici minuti per poter acquistare il mio primo fucile, un M-16 ad aria compressa, un’arma d’assalto perfettamente riprodotta e senza Iva.
Dal giorno del nostro ritorno a casa dichiarai guerra a tutti gli abitanti del mio borgo. Scatenai l’invidia e il senso di rivalsa nei miei amici, che si procurarono in fretta interi arsenali di armi ad aria compressa per difendersi.
Giocavamo alla guerra, le nostre battaglie erano fissate per la domenica. La preparazione occupava l’intera settimana. La nostra euforia prese il posto delle gite parrocchiali anche nel cuore di Don Romeo che, di settimana in settimana, proporzionava la durata della santa messa delle dieci con l’orario fissato per l’appuntamento.
Col tempo gli investimenti si fecero sempre più consistenti: le mimetiche, la costituzione del softair club, i boschi di notte, i casali abbandonati, la tessera del poligono.
Persi anche un occhio, centrato in pieno, nulla da fare.
L’idea di spostare le nostre battaglie nella metropoli venne da sé, dopo che nei mesi precedenti avevamo battuto fabbriche dismesse, ruderi e cave in tutta la provincia. Il pullman ci porta nella capitale, un campo da guerra perfetto, noi vestiti di tutto punto che ci divertiamo a seminare il terrore tra i turisti... tutto il resto è avvenuto molto velocemente…
Un’esplosione, la terra trema, elicotteri, ronzio di trasmittenti, sirene, il traffico impazzisce, una donna calpestata dalla folla, polvere, un uomo con la faccia coperta di sangue ed i vestiti strappati urla, i baffi gli si imbevono di lacrime e sudore, il colosseo è esploso, Cristo! Penso alle ossa di Chuck Norris che si spezzano sotto i colpi di Chen e sto male. Scappo via col mio giocattolo a tracolla, è il tracollo.
Roma.
Ora.
Sono circondato: caschi, kevlar, armi lucenti e bellissime. Non capisco subito, poi vedo il cadavere di Don Romeo a terra con il fucile tra le braccia. Brutta fine per un uomo fattosi prete solo per scappare via dalla Somalia devastata dalla guerra ed ora riverso a terra, in pieno centro di Roma, vestito da guerrigliero e col cranio spappolato. Non c’è tempo di pensare. Non sono accettate spiegazioni. Venti fucili rivolti verso di me, che belli che sono. Ho solo il tempo di ascoltare: dalla pensilina del bus una radio abbandonata trasmette il notiziario “…l’allerta è massima, dalle ultime notizie sembra che i terroristi islamici esecutori dell’attentato siano accerchiati nel centro della città, l’ordine è di sparare a vista…”. La voce del cronista abbraccia l’esplosione del colpo mentre il proiettile si schianta sul mio occhio di vetro mandandolo in mille pezzi. Poi è cervello. Precipito verso il marciapiede. Prima che quel che resta della mia testa s’infranga sull’asfalto penso alla hostess del museo della tortura chiusa dentro la vergine di Norimberga. Muoio…ma con un dubbio: come si può scambiare un venezuelano per un arabo?
Amen.
Fin da piccolo sono abituato a viaggiare. La prima sbiadita immagine che mi gravita nella testa è quella del viaggio da Caracas a Roma. I miei primi genitori però non li ricordo ne li rimpiango, ora sto bene qui.
La gita nella Repubblica di San Marino si è impressa a fuoco nella mente, come un disegno intagliato sulla corteccia di un albero. Due anni fa circa, una giornata piovosa, tanti pullman, tante tedesche. Mi ritrovo in una gabbia dove far ciondolare disordinatamente turisti per spremerli fino all’ultimo euro. Il potenziale fascino del luogo è inghiottito da botteghe ricolme di cianfrusaglie in sovrannumero rispetto alla superficie calpestabile. Quel giorno scoprii con stupore che il commercio dei coltellini svizzeri vanta numeri impressionanti, anche tra i parrocchiani si nascondevano insospettabili fanatici dell’arma bianca dalle mille funzionalità, una vera e propria guerra santa a colpi di tagliaunghie.
La prima folgorazione di quel viaggio la ebbi alle porte del centro storico entrando nel museo della tortura. Una valanga di utensili del dolore e la guida che ci illustrava come venissero usati sui prigionieri. Mi ribolliva il sangue mentre la hostess infilava la testa nella ghigliottina incalzata dalle domande di Don Romeo, il missionario al contrario che di solito ci faceva da accompagnatore.
Proseguimmo divincolandoci tra stradine in salita tempestate da negozi in fotocopia che vendevano oro e liquori, un binomio che, in quel momento, sembrava aver sostituito nei gusti dei miei compagni di viaggio il più popolare “donne & motori”. La conseguenza di questo improvviso cambio di preferenze portò gioie luccicanti al collo delle donne e malori per i mariti che, per dimenticare gli acquisti incauti (ma convenienti), avevano scolato tutte le bottiglie di grappa da portare in souvenir ai parenti.
La mia eccitazione si stava per quietare quando arrivammo al museo delle armi antiche, una rassegna dei più eleganti strumenti di morte della storia. Neanche il tempo di respirare che si giunge al museo delle armi moderne. Finalmente compresi l’utilità di quelle piccole botteghe ai lati della strada. L’istinto medioevale di distruzione e morte trasmessomi dall’educativa visita ai musei mi portò a fare una fila di quindici minuti per poter acquistare il mio primo fucile, un M-16 ad aria compressa, un’arma d’assalto perfettamente riprodotta e senza Iva.
Dal giorno del nostro ritorno a casa dichiarai guerra a tutti gli abitanti del mio borgo. Scatenai l’invidia e il senso di rivalsa nei miei amici, che si procurarono in fretta interi arsenali di armi ad aria compressa per difendersi.
Giocavamo alla guerra, le nostre battaglie erano fissate per la domenica. La preparazione occupava l’intera settimana. La nostra euforia prese il posto delle gite parrocchiali anche nel cuore di Don Romeo che, di settimana in settimana, proporzionava la durata della santa messa delle dieci con l’orario fissato per l’appuntamento.
Col tempo gli investimenti si fecero sempre più consistenti: le mimetiche, la costituzione del softair club, i boschi di notte, i casali abbandonati, la tessera del poligono.
Persi anche un occhio, centrato in pieno, nulla da fare.
L’idea di spostare le nostre battaglie nella metropoli venne da sé, dopo che nei mesi precedenti avevamo battuto fabbriche dismesse, ruderi e cave in tutta la provincia. Il pullman ci porta nella capitale, un campo da guerra perfetto, noi vestiti di tutto punto che ci divertiamo a seminare il terrore tra i turisti... tutto il resto è avvenuto molto velocemente…
Un’esplosione, la terra trema, elicotteri, ronzio di trasmittenti, sirene, il traffico impazzisce, una donna calpestata dalla folla, polvere, un uomo con la faccia coperta di sangue ed i vestiti strappati urla, i baffi gli si imbevono di lacrime e sudore, il colosseo è esploso, Cristo! Penso alle ossa di Chuck Norris che si spezzano sotto i colpi di Chen e sto male. Scappo via col mio giocattolo a tracolla, è il tracollo.
Roma.
Ora.
Sono circondato: caschi, kevlar, armi lucenti e bellissime. Non capisco subito, poi vedo il cadavere di Don Romeo a terra con il fucile tra le braccia. Brutta fine per un uomo fattosi prete solo per scappare via dalla Somalia devastata dalla guerra ed ora riverso a terra, in pieno centro di Roma, vestito da guerrigliero e col cranio spappolato. Non c’è tempo di pensare. Non sono accettate spiegazioni. Venti fucili rivolti verso di me, che belli che sono. Ho solo il tempo di ascoltare: dalla pensilina del bus una radio abbandonata trasmette il notiziario “…l’allerta è massima, dalle ultime notizie sembra che i terroristi islamici esecutori dell’attentato siano accerchiati nel centro della città, l’ordine è di sparare a vista…”. La voce del cronista abbraccia l’esplosione del colpo mentre il proiettile si schianta sul mio occhio di vetro mandandolo in mille pezzi. Poi è cervello. Precipito verso il marciapiede. Prima che quel che resta della mia testa s’infranga sull’asfalto penso alla hostess del museo della tortura chiusa dentro la vergine di Norimberga. Muoio…ma con un dubbio: come si può scambiare un venezuelano per un arabo?
Amen.
1 Comments:
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