giovedì, dicembre 15, 2005

Il gentiluomo con la pistola


Giovedì 4 dicembre 2003. Ero in biblioteca. Il manifesto, pagina 15. Un articolo di Marco Giusti a tutta pagina intitolato "L'anarchico del noir" annuncia la scomparsa del regista Fernando Di Leo. La notizia mi colpì più di quanto mi sarei mai aspettato, era come se se ne fosse andata una persona vicina. Niente a che fare con quelle passioni da nerd che se ne vanno in giro indossando le maschere di Guerre Stellari. Si tratta piuttosto di un legame viscerale, fatto di carni e asfalto, di parole ascoltate e lette nelle sue interviste, di quella sua capacità di parlare del cinema e della vita. L'opera di Di Leo rimane un'esperienza unica nel cinema italiano. Un percorso intenso e lacerante dove anche le prove meno riuscite e realizzate per esigenze puramente alimentari mantengono sempre una buona dose di originalità. La visione della società italiana di Fernando ha un ottica decisamente particolare, non a caso è stato il primo a comprendere la forza e le potenzialità dell'opera di Giorgio Scerbanenco utilizzando il romanzo "I ragazzi del massacro" come soggetto per il suo primo noir(1969). Ed è proprio il ciclo dei noir a rappresentare la vetta della sua produzione cinematografica, in particolar modo con la cosidetta trilogia del milieu: "Milano Calibro 9", "La mala ordina" ed "Il Boss". Tre film molto diversi tra loro che, tuttavia, costituiscono un percorso uniforme in cui l'occhio del regista sempre più si distacca dai personaggi raggiungendo l'apice del nichilismo proprio con l'ultimo film del terzetto. Non c'è spazio per la lotta tra buoni e cattivi, perchè tutti hanno qualcosa di marcio da nascondere e difendere, basta pensare al Commissario Malacarne, lo sbirro corrotto interpretato da Luc Merenda ne "il poliziotto è marcio", che costò a Di Leo minacce da parte del sindacato della polizia. Lo stesso modo di in cui affronta la politica è trattato in maniera assolutamente diversa rispetto a quanto avveniva nei pur interessanti lavori di quei registi appartenenti al cosidetto cinema politico. Ci sono poi le sterzate improvvise che Di Leo cerca di imprimere al suo lavoro aggiungendo al nero toni di colore e virando verso il grottesco, come avviene in "Colpo in Canna" o "I Padroni della Città". Altro elemento da tenere in conto è la capacità tecnica del regista, notevolmente superiore rispetto agli artigiani che praticavano i generi in quegli anni. Nelle opere migliori il pathos della tragedia è rafforzato dalle musiche di Bacalov e dalle performance di attori che realizzano spesso l'interpretazione della propria vita (Capponi, Adorf e Moschin). Fernando scardina le regole del genere attribuendo ruoli di rilievo alle donne, cosa fino ad allora impensabile in un noir, e sono soprattutto le tematiche femminili quelle che a Di Leo stanno più a cuore, manifestandosi esplicitamente nelle sue opere più tendenti all'erotismo come "Brucia Ragazzo Brucia", "La Seduzione" ed in quell'esperimento interessante ma non propriamente riuscito che è stato "Avere vent'anni". Ogni singolo dialogo dei suoi film è curato con particolare attenzione, rivelandosi in molti casi il vero valore aggiunto della pellicola. Di Leo era un vero pensatore, un intellettuale al servizio del genere, nei confronti del quale il cinema italiano ha molti debiti che con il tempo stà saldando, a partire dalla retrospettiva veneziana a lui dedicata lo scorso anno, fino all'uscita di prestigiose e ricche edizioni dei suoi film in dvd. Un uomo che ha iniziato a seminare nel cinema fin dai primi western di Leone, dietro ai quali c'è la sua sceneggiatura, per arrivare ai ripetuti omaggi a lui tributati da Quentin Tarantino nei suoi film. Non ho la pretesa, nè la forza, nè le capacità per condensare tutto in un unico post, ma ci tornerò sù.