Porte Aperte
Solo ora capisco come deve sentirsi il guardiano di un faro.
Sono solo le otto di sera e sembra notte fonda dentro questa villetta, in questa strada senza uscita.
Alle spalle ho un finestrone che si affaccia sul parcheggio. Il vento spazza via le speranze di primavera anticipata.
Conto i soldi, tanti soldi. Non c’è internet, ho una vecchia radio che gracchia ed un Pc che reclama aggiornamenti.
Anche stasera sono l’ultimo ad andar via. Ho il codice dell’allarme, le chiavi di porte e cancelli ed una rabbia che mi divora il fegato.
Mi volto con gli occhi pesanti ad osservare i cactus assolutamente fuori luogo in questo scorcio di campagna che cercano di resistere al vento. Lo stereo è sintonizzato da una vita su una piccola stazione regionale che piace tanto al mio collega perché gli ricorda i suoi tempi, come se tutto quello che è stato prodotto dai suoi trent’anni in poi non gli appartenesse. Non ho mai avuto la forza di cambiare frequenza, ogni volta che provo ad avvicinarmi alla manopola arriva una vecchia hit di Celentano che mi fa cambiare idea.
Fuori inizia anche a piovere. Una pioggia gradevole come merda di cane.
Sono pronto per uscire, la procedura è sempre la stessa: finestre, luci, cassaforte, allarme.
Infilo anche la giacca. Il codice…il codice…cazzo…me lo scordo sempre.
Due fari irrompono nel viale riflettendosi nelle gocce di pioggia. Sembrerebbe una Ibiza bianca. Non è una vettura familare da queste parti. Cerco di vedere i volti all’interno dell’abitacolo ma sono senza occhiali e senza lenti, la solita sbadataggine da miope vanitoso.
La macchina fa manovra nel vialetto puntando i fari verso l’ingresso principale. Li vedo scendere con delle torce.
Portano lunghi spolverini scuri e la pioggia scivola sui loro cappelli.
Uff…una rapina all’ora di chiusura. Non ho niente da difendere in questo posto e solo voglia di andare a casa.
Giro la chiave del quadro comandi della porta scorrevole spalancando la porta. Prendo la borsa e vado via.
Se ci fosse stato un comando per l’autodistruzione l’avrei premuto. Giuro.
Sono solo le otto di sera e sembra notte fonda dentro questa villetta, in questa strada senza uscita.
Alle spalle ho un finestrone che si affaccia sul parcheggio. Il vento spazza via le speranze di primavera anticipata.
Conto i soldi, tanti soldi. Non c’è internet, ho una vecchia radio che gracchia ed un Pc che reclama aggiornamenti.
Anche stasera sono l’ultimo ad andar via. Ho il codice dell’allarme, le chiavi di porte e cancelli ed una rabbia che mi divora il fegato.
Mi volto con gli occhi pesanti ad osservare i cactus assolutamente fuori luogo in questo scorcio di campagna che cercano di resistere al vento. Lo stereo è sintonizzato da una vita su una piccola stazione regionale che piace tanto al mio collega perché gli ricorda i suoi tempi, come se tutto quello che è stato prodotto dai suoi trent’anni in poi non gli appartenesse. Non ho mai avuto la forza di cambiare frequenza, ogni volta che provo ad avvicinarmi alla manopola arriva una vecchia hit di Celentano che mi fa cambiare idea.
Fuori inizia anche a piovere. Una pioggia gradevole come merda di cane.
Sono pronto per uscire, la procedura è sempre la stessa: finestre, luci, cassaforte, allarme.
Infilo anche la giacca. Il codice…il codice…cazzo…me lo scordo sempre.
Due fari irrompono nel viale riflettendosi nelle gocce di pioggia. Sembrerebbe una Ibiza bianca. Non è una vettura familare da queste parti. Cerco di vedere i volti all’interno dell’abitacolo ma sono senza occhiali e senza lenti, la solita sbadataggine da miope vanitoso.
La macchina fa manovra nel vialetto puntando i fari verso l’ingresso principale. Li vedo scendere con delle torce.
Portano lunghi spolverini scuri e la pioggia scivola sui loro cappelli.
Uff…una rapina all’ora di chiusura. Non ho niente da difendere in questo posto e solo voglia di andare a casa.
Giro la chiave del quadro comandi della porta scorrevole spalancando la porta. Prendo la borsa e vado via.
Se ci fosse stato un comando per l’autodistruzione l’avrei premuto. Giuro.
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